10 Ott 10 ottobre (Ismela) – La prima immagine che ho avuto dell’Etiopia è un mare di nuvole
Veramente, un oceano con delle nuvole giganti a forma di onde. Mi ero appena svegliata da quattro ore di sonno irrequieto, e non sono più riuscita a richiudere gli occhi davanti a quello spettacolo. Mi sono sentita addosso una incredibile carica di adrenalina, e ciò è sorprendente nel mio caso. Si può dire che è stato un amore a prima vista. Non ho certo passato ogni singolo momento del viaggio esclamando “che bello!”, né tantomeno criticando qualunque cosa mi capitasse davanti agli occhi. Immagino che le reazioni degli stranieri la dicano lunga sul perché dei problemi di comunicazione tra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, problemi decisamente devastanti. Noi avevamo visto per la prima volta una quantità improbabile di esseri umani viventi in tutt’altre condizioni. Ci abbiamo scherzato su, abbiamo discusso in modo superficiale, abbiamo ignorato, e persino criticato. Ci siamo rannicchiati nel nostro ego e nella nostra zona di conforto… Sembra che tutto quello che abbiamo sperimentato qui sia unicamente per vantarsene una volta tornati a casa. Vedo in quest’ignoranza l’incapacità di comprendere; e le uniche parole che potrebbero indicare un accenno di coscienza e consapevolezza suonano alle mie orecchie come una finzione per placare il senso di colpa o qualunque altro bisogno che ci spinge a parlare quando non serve. Col tempo si capisce, e quando si ascolta si capisce anche meglio, ma prima bisogna osservare. Siamo solo all’inizio del viaggio ma sento di capire l’Etiopia sempre di più, giorno dopo giorno. E anche gli altri ragazzi, a modo loro. Suor Laura questo lo comprende: la sera in cui siamo arrivati ci ha parlato di Adwa, abbiamo capito che osservare e raccontare non è l’unica cosa che possiamo fare. Possiamo e dobbiamo anche metterci al lavoro con nuovo tipo di umanità. Qui, dove il progresso non è stato l’onanismo ideologico di tutta una nazione, sento che le menti non sono state corrotte dall’irreversibile cultura della dominazione. Forse i perdenti non faranno la storia, ma sono capaci di trascinare con loro tesori e conoscenze destinate a tacere per sempre o a parlare tramite intermediari. Per essere capiti dai vincenti, i vinti della Storia, devono per forza deformare leggermente la realtà; come se alcuni cervelli non fossero strutturalmente capaci di capire il mondo così com’è. Potrebbe essere l’effetto perverso del culto della ragione. Ma i fatti sono questi: la geopolitica è un filo di lana caotico con nodi ovunque. Ma forse non ci si rende conto del ruolo fondamentale che gioca l’economia nella geopolitica. La colonizzazione ha cambiato pelle e ha ormai preso una nuova forma. Ci si scaglia, oggi, contro i cinesi che impazzano in Etiopia e in gran parte dell’Africa, ma è un fenomeno già visto. Il modo di dominare è cambiato, si è evoluto, ma solo per essere più coerente con l’illusione di libertà e la logica democratica del Nord del pianeta.
La globalizzazione è un cancro.
Avrebbe potuto attenuare il velo di ignoranza, vera causa di tutti i mali, invece porta a credere che gli africani invadano l’Europa perché il loro paese fa schifo. Sappiamo tutti l’origine del problema, ma prendersi le proprie responsabilità, come solo una folle come Suor Laura fa, è un’altra storia.
Però quando dico che l’Africa non è solo un cumulo di destini perversi, esiti infausti e false informazioni, ma un’apoteosi di sensazioni, non scherzo né esagero. Lo vedo ogni giorno, sul volto dei miei compagni di viaggio.