3 novembre (Ismela) – Solo la natura…

Tornando alle cinque e mezza di notte da qualcosa come otto ore di viaggio, entro dalla porta di casa mia senza nemmeno accorgermene. Tutto era familiare, la mia mente appannata dal sonno reclamava una doccia e una bella dormita. Mi sono sciacquata di dosso quella morbosa ipocondria che mi aveva avvolta dall’inizio del viaggio, da quando mi ero resa conto che il mio organismo delicato non poteva competere con tutto quello di cui è composta una realtà africana.

Mi sono svegliata dopo aver dormito qualcosa come sette ore, per pranzare con i miei genitori.

In quel momento ho avuto la stessa sensazione di quando in macchina osservavo le lunghe e larghe strade asfaltate di Roma, la natura contenuta, l’assenza di qualunque essere animale se non l’umano e il piccione, i lampioni ad intervalli regolari, i cartelli stradali, le pubblicità… Non mi è sembrata una cosa normale di per sé, come non mi sono sembrate anomali le strade di Adwa. Perché non è necessario né utile paragonare la mia e un’altra realtà per poi deliberare una sentenza finale fatta di pregiudizi, ignoranza. Dopo tutto sarebbe la proclamazione di un solo punto di vista, e la cosa non è in nessun modo ragionevole. L’unico atteggiamento che ho tenuto, e l’unica maniera in cui penso di poter giudicare l’esperienza vissuta, è attraverso la mia relazione con l’ambiente in cui sono stata immersa. Il fatto che in fondo stare a casa lo considero come un ritorno alla normalità, mi ha spinto a volerla descrivere questa normalità. E non ci sono riuscita con le parole, mi veniva da indicare alcuni oggetti come se la loro vista avrebbe spiegato tutto: la doccia, il bidè il frigorifero, la scrivania, la biblioteca, questo e quest’altro….la normalità. Dal momento in cui l’accumulo di un certo tipo e quantità di oggetti diventa la normalità, si finisce per confonderlo con un’unica realtà di sussistenza. E si diventa dipendenti.

Sono dipendente dalla società nella quale vivo. L’ho sempre saputo ed è una cosa che mi ha sempre indignata, ma l’impatto con l’esperienza di Adwa ha sottolineato questo particolare aspetto, strettamente collegato col principio di responsabilità che mi tormenta così tanto. Se io dipendo dalla società in cui vivo, anche gli abitati di Adwa lo fanno, e anche gli altri di qualunque altro posto. Il disequilibrio, non si trova nella differenza tra le diverse società o il livello di vita, bensì nella considerazione che ognuna di esse ha per l’altra. Se alcuni aiutano il prossimo per la fede in Dio, una parte della popolazione mondiale lo fa per la semplice credenza nella parola umanità. La sensazione sgradevole avvertita in macchina o quella che mi ha perseguitato a pranzo è stata frutto dell’indifferenza, tipico di quando ci si ritrova invischiati nella solita routine. Non sono mai stata una persona emotiva, o sentimentale, e se decido di non provare niente riesco a farlo, come penso sia per tutti noi, ma se finisco per  provare qualcosa succede solo per confronto. Così che quando i miei genitori hanno voluto sapere com’era l’Africa la mia indifferenza è piano piano scivolata via. In quel momento, la maniera in cui ne avrei parlato, avrebbe decretato il fondo di questo viaggio. Ma da dove iniziare per descrivere l’inspiegabile complessità dell’Africa? Il racconto è quel tipo di responsabilità che bisogna assumere con coraggio e spirito, ma in quel momento la consapevolezza che le mie parole forse non avrebbe cambiato una virgola nella vita dei miei genitori né tantomeno nel mondo, ha fatto dissolvere sia la volontà di parlare che di ricordare l’Africa. Adesso aspetto che gli oggetti che mi circondano e il flusso della vita mondana mi rendano ancora indifferente, anche se in questo modo forse le parole per descrivere com’è l’Africa moriranno lentamente.

Nel romanzo “la via dei canti” di Bruce Chatwin, Padre Terence uno dei personaggi diceva ” Più che mai, gli uomini dovevano imparare a vivere senza gli oggetti. Gli oggetti riempivano gli uomini di timore: più oggetti possedevano. Più avevano da temere. Gli oggetti avevano la specialità di impiantarsi nell’anima, per poi dire all’anima cosa fare.”

Osservando la tendenza generale cos’è che gli oggetti ci dicono di fare?

Lo specchio ci spinge a preoccuparci del nostro aspetto, così come i social network e i perfetti prototipi di umani in televisione. D’altra parte, i muri delle città e i negozi, ci spingono a mangiare e ce ne fanno venire voglia, talmente che è nato l’assurdo concetto di food-porn. E parlando di pornografia, i riferimenti sessuali, anche se in parte dissimulati, sono ovunque, giusto di fronte alla mia residenza universitaria, per esempio, c’è un enorme cartellone pubblicitario per un sito internet dedicato alle orge. Ecco cosa ci dicono gli oggetti, concetti basi dell’umanità certamente, ma sublimati, mascherati, decorati talmente tanto da renderli più importanti ai nostri occhi di ciò che sono in realtà. Lo dico soprattutto per il culto dell’apparenza che è il motivo per il quale penso consumiamo di più e con più interessi. Perché ogni cosa che compriamo alla fine è una nostra proiezione, riflette noi, come ogni regalo che facciamo e riceviamo in qualche modo. Gli oggetti che possediamo possono anche indicare chi siamo; quando andavo a casa di amici, la biblioteca era la prima cosa che guardavo per avere un’idea delle preferenze politiche della famiglia. In Africa non c’è niente di tutto questo. Certo piano piano sta arrivando anche laggiù, ma i ragazzini di Adwa, quando mi parlavano, guardavano me, e non che cosa avevo. Toccavano le mani, le accarezzavano con una tale dolcezza da fare ingelosire un lucum. Una delle prime cose che mi aveva sorpreso di Addis Ababa era il fatto che la gente camminava spoglia di qualunque cosa, senza borsa, senza niente nelle mani; mi chiedevo dove diavolo andavano leggeri in questo modo, come fantasmi erranti. Qui ogni volta che cerco il mio cellulare tocco convulsamente ogni tasca, fino a quando non sento il contatto che mi conforta, e sì, fino a quando non risento il contatto metallico temo.

Insomma penso che tutte queste cose ingombrano la mia mente, e che il mio blocco poetico tornando dall’Africa sia stato in parte dovuto a quello. Se laggiù la mia mente era un fiume ininterrotto, la città l’ha trasformato in un torrente pieno di rocce. Solo la natura riesce a restituirmi quella strana sensazione di apprezzare lo smarrimento per non possedere nulla. Di essere indifferente senza sentirmi in colpa.