3 novembre (Yasmina) – Le piccole cose, come il glutine

Sono le piccole cose che, come il glutine, tengono insieme e danno senso ad una situazione. E se si vuole capire il perché di ciò che si ha davanti, sono proprio le piccole cose che richiedono un’analisi approfondita. Prendete una canzone a caso: ci sono degli strumenti che si sentono di più e altri che a malapena si percepiscono al primo ascolto. Ora provate ad immaginarvi questa canzone senza le tre note del synth di fondo… manca qualcosa di terribilmente essenziale, giusto?

 

A tre settimane dal mio ritorno in Italia, queste piccole cose, che già mi avevano turbato durante il mio soggiorno in Etiopia, si fanno sempre più chiare.  Riflessioni abbozzate, scene perturbanti, comportamenti inadeguati, discorsi vuoti, battute fuori luogo, situazioni fuori contesto…: i travelling memorial magicamente rimettono a fuoco immagini, suoni e parole che continuano a non quadrare. Ma ce n’è una questione in particolare che non avevo ancora messo sotto la mia lente d’ingrandimento.

 

Dovete sapere che noi siamo arrivati in Etiopia con vari obbiettivi, oltre a quello di raccontare la Missione di Suor Laura, la realtà del posto etc… Obbiettivi personali, obbiettivi di lavoro, obbiettivi di gruppo… Quello principale, per chi non lo avesse ancora capito, era quello di liberarvi dai preconcetti sull’immigrazione clandestina e non, in Europa e più precisamente in Italia. Ma come si fa a parlare di una situazione in cui sembrano mancare perennemente le tre note del synth di fondo? I nostri leader Etiopi questo lo hanno fatto notare ai nostri superiori: ”Perché mostrare SOLO l’Etiopia dei morti di fame? dei malati di Aids? Quella povera, all’apice della catastrofe? La nostra Etiopia non è composta SOLO da questo tipo di realtà e teniamo a che anche tutto il resto sia tenuto in conto”. Non immaginate quanto possa essere destabilizzante passare dal mondo reale nella sua forma più cruda ad una missione cattolica splendente da capo a fondo. Non è una critica: se la missione splende è per dare l’esempio. Tuttavia, c’è tutta una fascia sociale che dovrebbe tenere queste due realtà insieme e che ci è stata fatta scivolare addosso. Sarà pure una minoranza ma esiste. Forse vi chiederete ”Qual è il problema? Voi tanto dovevate raccontare un problema preciso. Il resto conta poco”. Ed è proprio qui che vi sbagliate: per capire la realtà di una classe sociale bisogna analizzare anche quella delle altre. Per capire perché i bambini e i volontari etiopi ci guardano in un certo modo bisogna comprendere ciò che rappresentiamo per loro e cercare in tutti i modi di non fare determinate cose.

 

Si è parlato a lungo di neocolonialismo cinese e delle varie forme di neocolonialismo che si possono notare in Africa, oggigiorno, da parte delle varie ex-potenze Europee (in particolare Francia ed Inghilterra) ma credetemi, il neocolonialismo si trova anche su scale ridotte e protratto da gente che di certo non ha né la notorietà di Churchill né quella di De Gaulle… I balli di gruppo che venivano insegnati ai bambini variavano da Ciappa la Galeina alle pseudo marcie militari da impediti di Chu chu ua – gesto delicato in un paese uscito da poco da una guerra civile, come mi fece notare Ismela -. Non sto dicendo di abolire i balli di gruppo ma se l’obiettivo principale è la coordinazione tanto vale far cantare qualcosa ai volontari etiopi, con tanto di ballo, e la scusa del ”ma non esistono canzoni etiopi adatte ai bambini” finisce per suonare antitetica dopo aver ballato le famosissime ”Bomba” e ” La Colita” per due settimane.

 

Ricordate di quando ho fatto riferimento ad una cosa che mi aveva lasciata particolarmente interdetta? Eccola qui: come potrete vedere nelle riprese, ogni mattina, pomeriggio e tardo pomeriggio i bambini dovevano cantare l’inno Etiope, cosa normalissima nei paesi dove si punta a rafforzare l’identità nazionale. A noi volontari è stato detto di metterci la mano sul cuore per mostrare l’esempio ai bambini e anche in segno di rispetto. Lo abbiamo fatto tutti, tranne una persona – che non giudico minimamente – che sosteneva che, in seguito al fatto che per lui/lei questo inno non rappresentava niente, non vedeva perché doveva mettersi la mano sul cuore. Sarebbe potuto sembrare irrispettoso non farlo come sarebbe potuto sembrare irrispettoso farlo? Poco importa, non è questo il punto. Ciò che mi disturba di questo episodio non è il fatto che questa persona non si sia messa la mano sul cuore o che gli altri volontari – bianchi – lo abbiano fatto con aria spensierata, bensì il fatto che io lo abbia fatto senza riflettere su ciò che questo gesto abbia significato per me in tutti questi anni.  E’ raro che io metta la mano sul cuore quando si canta l’inno italiano. Si lo so, sono italiana ma, avendo la pelle più scura di quella dell’italiano medio, non vengo percepita come tale. Perché mostrare un gesto di fedeltà ad una patria in cui la gente come me non viene considerata come parte integrante? E io sono stata fortunata rispetto ad altri, credetemi! Quanti ragazzi nascono qui da genitori stranieri, vengono cresciuti secondo le nostre usanze, frequentano le nostre scuole, mangiano pasta, pizza e mozzarella a pranzo, cena e colazione, imparano la storia del nostro paese, leggono i libri dei nostri sommi poeti e autori, integrano ogni briciolo della nostra cultura ma per ottenere la cittadinanza italiana non possono lasciare il paese fino ai loro 18, pena il rimpatrio forzato in un paese (quello dei genitori) del quale spesso sanno poco o niente… Come posso giurare fedeltà a un paese che non contempla la mia esistenza nelle pubblicità, insulta chi ha i miei tratti fisici in Parlamento (vedi Cécile Kyenge), presume che solo per il colore di pelle non possa essere italiana (anche se mia madre lo è al cento per cento )? Come posso giurare fedeltà a un paese nel quale persino le personalità importanti prima di chiedermi come mi chiamo, mi chiedono ”Da dove vieni?” – non è la domanda il problema, è ciò che si nasconde dietro ad essa -? Come posso giurare fedeltà a un paese che si mette sulla difensiva invece di provare a mettersi nei miei panni? Se ai neri, in America, sparano, in Italia non vengono considerati neanche degni di essere uccisi. Noi non esistiamo eppure ci siamo, come tutti gli altri che vengono considerati ”stranieri” facenti parte di minoranze etniche che mai potranno inserirsi nello spettro di genere caucasico-purista.

 

Non ho mai lasciato che le mie due nazionalità mi definissero anche perché per i maliani sono italiana e viceversa per gli italiani sono maliana. Ma è doloroso non sentirsi completamente a casa nel paese in cui si è nati e cresciuti. James Baldwin, famoso scrittore americano degli anni sessanta, diceva ”Essere un Negro in questo paese ed esserne relativamente cosciente si traduce nel risentire rabbia quasi perennemente”. E’ brutto amare un paese con tutto se stessi e non essere ricambiato di questo amore in modo completo. Mi dispiace, mi dispiace molto. Le giustificazioni non mi fanno più né caldo né freddo perché è da tutta la vita che sento scuse su scuse. Le colpe finiscono sempre per essere ridistribuite sugli oppressi. Ora dovrei finire su una nota del tipo ”sì ma c’è speranza, le cose cambieranno, non vi preoccupate…”, sapete cosa: non mi va. Non perché io non credo sia possibile e, sia chiaro, sarei disposta a dare la vita perché la situazione del nostro paese cambi. Ma ho l’impressione che se io finissi questo articolo in quel modo, molti di voi se ne laverebbero le mani. La cosa più dura che abbiamo dovuto affrontare in Africa è il porsi davanti ad una realtà terribile e straziante senza chiudere gli occhi e tapparsi naso e orecchie. Ecco, questa è la dura realtà: assaporatela, digeritela e cercate di mettervi al posto di qualcun altro. Non compatendolo, non provando pena o tenerezza per la sua situazione, ma affrontando il problema in modo razionale. Deve far male, molto male.  Perché è quando le cose fanno male che troviamo la forza di lottare. Il mio invito è a lottare, ogni giorno, per ogni causa che vi sta a cuore perché, sempre citando Baldwin, ”Non c’è niente di più pericoloso, nella creazione di una società, di un uomo che non ha niente da perdere”.  National Anthem